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Burn out: Ruolo ed Organizzazione

Il burn-out rappresenta in generale una condizione di malessere/esaurimento/demotivazione del collaboratore di un sistema lavorativo, condizione che causa dinamiche di adattamento non positive tra lo stesso e l’impresa; esso risulta essere un fenomeno solo da poco rilevato ed analizzato nel mondo del lavoro post-moderno, quasi per nulla nel servizio sociale. Esso riguarda con frequenza sempre maggiore anche i mondi lavorativi dell’aiuto i quali, per definizione, sembrerebbero avulsi da dinamiche di concorrenza o produttività frenetica, che sono invece le cause di burn-out nei settori di produzione. Nel caso "classico" della produzione industriale, infatti, il collaboratore in burn-out induce diseconomie di processo (sarà più lento, più impreciso), ma il prodotto del suo lavoro conserverà caratteristiche oggettive, fedeli agli standard. Nel campo dei servizi alla persona invece il collaboratore in burn-out non induce solo diseconomie di processo, ma causa anche bassa qualità nell’oggetto di lavoro, anzi inficia l’efficacia stessa della sua azione, in quanto la natura dell’attività -la relazione- viene ad essere viziata fortemente dalle proprie difficoltà psicologiche. Possiamo quindi affermare che nel campo delle professioni di aiuto, diversamente da quello della produzione classica, atteggiamenti psicologici del lavoratore, condizioni del processo lavorativo e oggetto dell’attività vengono ad essere compresi in un unico sistema concettuale in interdipendenza reciproca.

In Italia manca uno studio sul burn-out al di là del settore sanitario, cioè in relazione ai professionisti che utilizzano "la relazione" come canale di intervento quotidiano, i cosiddetti "professionisti del sociale", parlo quindi degli assistenti sociali. Questi non trattano pratiche amministrative e non operano prestazioni anonime (come farebbero comuni impiegati), ma agiscono processi di aiuto tramite la relazione. Il burn-out quale sindrome da demotivazione, nel caso dell’assistente sociale, inficia la capacità stessa di saper agire e gestire le relazioni (sia con il "cliente" che con l’Organizzazione), rappresenta quindi l’assenza o la carenza dei presupposti di base per l’esercizio professionale. Il burn-out dell’assistente sociale è quindi da una parte simile a quello delle altre professioni di aiuto, dall’altra però assume una specificità tutta sua. Si notano infatti più livelli di burn-out: un primo - potremmo dire generale - che riguarda l’assistente sociale quale membro di un’organizzazione lavorativa, un secondo - più particolare - che lo accomuna alle altre professioni di aiuto, ed un terzo - più specifico ancora - che deriva da una tendenziale delegittimazione di ruolo imposta dal sistema lavorativo.

Appare comunque del tutto evidente nell’odierna realtà una "discrasia" di ruolo dell’assistente sociale, ovvero tra quello formativo, connesso alla teoria, spesso di origine anglosassone, e quello richiesto dal mercato del lavoro; si ipotizza quindi che, se nelle professioni di aiuto in generale esiste un rischio di burn-out causato dal rapporto quotidiano col portatore di bisogni, nel caso dell’assistente sociale italiano questo rischio sia connesso al rapporto con la propria organizzazione.
Si vuole in particolare mettere in evidenza tale discrasia di ruolo produce un rischio di conflitto nell’organizzazione: da una parte c’è un assistente sociale formato e definito per il cittadino, dall’altra un assistente sociale richiesto dal mercato del lavoro definito per l’organizzazione. Il problema è quindi il rapporto tra assistente sociale ed organizzazione. Occorre a questo punto specificare che non esiste la "buona" o la "cattiva" organizzazione, ma una diversa tipologia organizzativa che richiede un certo tipo di collaboratore: l’organizzazione può essere una burocrazia, un’impresa, un partito o una no-profit, può quindi avere diversi paradigmi di funzionamento, sta però al collaboratore adattarsi ai diversi paradigmi. Il servizio sociale italiano è, secondo tali tipologie organizzative, storicamente incamerato nella burocrazia pubblica, sebbene l’ovvio obiettivo da perseguire sia lo stesso del no-profit (perseguimento di azioni di solidarietà), viene gestito, oggi più di ieri, in termini di impresa (contenimento dei costi), sebbene gestito da una burocrazia pubblica, e sempre di più orientato da indirizzi politici.

L’assistente sociale italiano, ancora in maggioranza dipendente pubblico, è formato dall’Università per un’operatività di solidarietà, si trova invece in Enti burocratici a tendenza autoreferenziale; egli quindi ha una "mission" vicina al no-profit, ma è inserito in strutture aventi una "mission" ben diversa (redistribuzione reddituale, "coesione sociale" e "contenimento/riduzione di spesa").
L’attività dell’assistente sociale italiano, quasi sempre svolta in Enti Pubblici, viene "condizionata" inoltre da due "vizi" del pubblico impiego che ne riducono il significato: da una parte il basso riconoscimento (economico e di ruolo) rispetto al panorama dei professionisti esistenti nei servizi pubblici e dall’altra la forte tendenza attuale alla burocratizzazione delle prestazioni nei servizi alle persone, connesse a spersonalizzazione, formalismo, segmentazione, crescita di distanza rispetto al destinatario delle prestazioni, standardizzazione delle prestazioni. Queste indicazioni avvalorano pertanto un dato circa una "discrasia di ruolo", ovvero una divergenza tra ruolo "pensato" su cui si è sviluppata la formazione accademica e quello "agito", permesso cioè dall’organizzazione di lavoro. Questa discrasia ipotizza quindi un malessere lavorativo da parte del gruppo professionale in questione per palese contrasto tra l’identità di ruolo e gli ambiti di azione che il mondo lavorativo permette all’assistente sociale.

Quanto finora analizzato ha già evidenziato alcune criticità di fondo della professione dell’assistente italiano, criticità che minano l’esercizio del ruolo professionale nel lavoro quotidiano ed indirettamente ledono il benessere lavorativo di questo professionista. Riassumo velocemente i dati di fondo rilevati: discrasia tra obiettivi della professione ("mission" stabilita addirittura per Legge dello Stato) e collocazione in burocrazie pubbliche a forte tendenza autoreferenziale; limitazioni del ruolo per esclusione da funzioni di vertice; basso riconoscimento economico e di funzioni; cultura "burocratica" delle prestazioni alla persona (anonimità, parcellizzazione, spersonalizzazione, standardizzazione, ecc.); necessità di governo della propria immagine (ancora ancorata al "burocrate pubblico" o al "marginale").


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A cura di:
Ugo Albano
Creation date : 2007-04-12 - Last updated : 2010-01-31

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