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L’immigrazione in Italia e in Europa:

Cause, caratteristiche, funzioni, prospettive (*)

2. Le cause permanenti delle migrazioni verso l’Europa (2a parte)

Il secondo fattore che è destinato ad alimentare in modo permanente, e – credo – crescente, le attuali migrazioni verso l’Europa e l’Italia è l’intensificazione in atto della penetrazione diretta del capitale transnazionale nell’agricoltura dei “continenti di colore”. Seppur superata nell’anno 2002 dai cosiddetti servizi, a scala mondiale l’agricoltura occupa sempre il 35% della forza-lavoro totale, oltre un miliardo di addetti. Ebbene, su questo enorme “esercito” di lavoratori, che è composto per lo più di piccoli produttori formalmente indipendenti, si sta stringendo una morsa di ferro che ne costringerà centinaia di milioni, per cercare di sopravvivere, ad abbandonare le campagne e riversarsi nelle metropoli del Sud e del Nord del mondo. Come ha dimostrato uno studio scientifico della Canada’s National Farmers Union (CNFU 2005), la pressione congiunta sui produttori agricoli delle società petrolifere, delle imprese che producono macchine per l’agricoltura, fertilizzanti, sementi, medicinali per il bestiame e le piante, delle banche e delle casse di credito agricolo, delle mega-corporations della raccolta e commercializzazione dei cereali e degli altri maggiori prodotti agricoli, ed infine delle imprese dell’agro-alimentare e di quelle della grande distribuzione, non sta lasciando scampo neppure ai coltivatori e agli allevatori piccoli e medi delle nazioni più ricche (il Canada, per l’appunto); figurarsi, poi, la sorte dei contadini poveri o senza terra di Asia, Africa e America Latina!6

Profondamente ristrutturate e integrate nel mercato mondiale dai capitali trans-nazionali, specie se davvero decollerà la produzione dei “bio-carburanti” che richiedono ben poca manodopera, le campagne cinesi, indiane, indonesiane, latino-americane, africane, medio-orientali forniranno nei prossimi due, tre decenni al mercato globale del lavoro salariato, un nuovo, enorme contingente di emigranti internazionali che non potrà fermarsi, o almeno: non potrà fermarsi per intero, negli slums delle megalopoli terzomondiali.

Anche perché, e siamo al terzo dei fattori permanenti, per effetto di un moto anti-coloniale che non si è ancora esaurito c’è stata una crescita delle aspettative delle popolazioni del Sud del mondo.

E’ da più di due secoli, se assumiamo a punto di partenza la formidabile sollevazione anti-francese, anti-spagnola e anti-britannica dei neri di Haiti, che è in atto, con alterne vicende, il risveglio delle “genti di colore”. Per quanto sia terribilmente amaro, e lo è, lasciare la propria terra e i propri cari, molti tra gli elementi più giovani, sani, istruiti, intraprendenti di questi popoli sono disposti ad emigrare anche verso lontani lidi inospitali pur di sfuggire alla sorte di povertà e di emarginazione che li attende in patria; una sorte che, per l’appunto, dopo quello storico risveglio non si intende più subire passivamente quasi fosse un immodificabile decreto naturale o divino. Disposti ad emigrare lo sono fino al punto da sembrare patologicamente posseduti, ha scritto uno studioso marocchino, da una vera e propria obsession migratoire.
Un’ossessione che si può anche leggere come scarso attaccamento al proprio paese e finanche deprecarla, e accade, come un tradimento. Ma è più razionale, credo, vedervi invece il bisogno di emancipazione sociale, un incontenibile desiderio di riscatto, non solo o non sempre individuale, l’aspirazione ad una vita dignitosa per sé e i propri cari, che nei più coscienti si vuole andare a realizzare, anche in segno di non rientrata sfida, là dove regnano i vecchi colonizzatori. La delusione per il fallimento o il blocco del moto anti-coloniale, o almeno del primo tempo della sollevazione internazionale dei popoli colonizzati, non ha fatto deperire quel bisogno-desiderio; l’ha reso semmai più acuto, a misura che quel moto ha, in tutto o in parte, svelato i motivi profondi per cui è stato ed è tanto arduo concretizzarlo.

La quarta causa – non sto seguendo, è evidente, un ordine di importanza - della continua crescita del numero degli immigrati in Europa e in Italia è la richiesta inesauribile di forza-lavoro a basso costo e bassissimi (o nulli) diritti che proviene dal sistema delle imprese e dalle famiglie delle classi abbienti e medie europee-occidentali e italiane. Una richiesta pressante quanto mai lo è stata in precedenza, di braccia, menti, corpi e, per molti versi, cuori “flessibili”, che siano disposti, per stato di necessità, ad accettare l’inaccettabile, quanto meno nei primi e assai difficili tempi della loro permanenza qui “da noi”. Alla base di una simile domanda c’è un duplice processo di declino: il declino (relativo) dell’Europa nella competizione mondiale con gli Stati Uniti da un lato e l’emergente Asia (o Cindia) dall’altro, ed il declino del welfare state. Come potrebbero le imprese e gli stati euro-occidentali, che arrancano nella competizione per il primato mondiale, rinunciare a grandi contingenti di lavoro immigrato, quando il loro competitor al di là dell’Oceano ne fa un uso sempre più massiccio (negli ultimi dieci anni si calcola siano entrati negli Stati Uniti un milione, e anche più, di nuovi immigrati l’anno)? quando i costi di produzione dei nuovi rampanti colossi industriali asiatici sono, sul versante del lavoro vivo, così inferiori a quelli medi euro-occidentali? e come altrimenti possono date fasce delle famiglie europee di ceto medio fronteggiare la crescita dei costi del lavoro di cura legata alla contrazione della spesa pubblica se non assumendo “servitù” (così si sta tornando a chiamarla) privata, questa volta “di colore” anziché indigena?

Per l’Italia di inizio ventunesimo secolo il ricorso al lavoro, allo sfruttamento del lavoro immigrato è due volte irrinunciabile, dal momento che l’ultimo giro della globalizzazione finanziaria ne ha letteralmente decimato la grande industria tradizionale. Scomparse, tracollate, tracollanti, o almeno in grosse difficoltà, le sue sole mega-imprese del passato, Italsider, Olivetti, Montedison, Ferruzzi, Sir, Parmalat, Fiat, Telecom, resta all’Italia, al 2009, Eni ed Enel a parte, poco più che un insieme di distretti industriali di piccole-medie imprese ad alta intensità di lavoro, tallonati da presso dal potente dinamismo dell’industria della Cina e di altri paesi emergenti. Una economia nazionale così a mal partito, e così lontana dalla possibilità reale di investire massicciamente nella ricerca e nella “via alta allo sviluppo” sognata da alcuni settori del mondo sindacale, non può sperare di restare aggrappata al vagone di coda del “gruppo dei grandi” se non comprimendo violentemente il proprio costo del lavoro. Ed a cos’altro se non a ridurre il costo complessivo del lavoro serve il ricorso ai lavoratori immigrati, che non a caso si è tanto esteso nell’Italia dell’ultimo decennio?

Non ci si faccia stordire dalla retorica imperante sulla scena pubblica. Stando ad essa, l’Europa, e in particolare l’Italia, non ne possono più delle “barbariche orde” di emigranti che premono, disperate e criminogene, alle loro felici e immacolate porte e si apprestano perciò a respingerle in massa nelle tenebre da cui provengono. Ma si osservino con attenzione i fatti reali.
Da quando l’Europa si è data gli accordi “anti-immigrazione” di Schengen, il numero degli immigrati è cresciuto più che nei vent’anni precedenti. In Italia la sola sanatoria del 2002 conseguita alla Bossi-Fini, finora la più xenofobica e razzista delle leggi sull’immigrazione, ha riguardato una massa di immigrati davvero considerevole (650.000), pressoché pari a quella (685.000) delle tre sanatorie, presuntamente permissive, degli anni ’90. No, né l’Europa, né tanto meno l’Italia sono stanche di immigrati. Al contrario: ne bramano in quantità. Solo preferiscono farli passare sotto le forche caudine di una severissima legislazione restrittiva, repressiva, selettiva, “a geometria variabile” appunto, affinché essi moderino le loro aspettative e “pretese” fin dalla partenza. Il passaggio semi-obbligato per la “clandestinità” serve come scuola di sottomissione. Per questa medesima finalità tanto l’Europa che l’Italia preferiscono “accogliere” gli immigrati, specie se provengono dal mondo islamico o dalla Cina, sotto un diluvio di invettive intimidatorie. E per la loro accorta selezione, ai vecchi uffici statali per l’immigrazione degli anni ’50 e ’60 (sul tipo del Bundesanstalt fur Arbeit tedesco) in qualche misura obbligati a darsi e rispettare regole, preferiscono oggi le nuove trafile private della criminalità organizzata specializzatasi nella tratta e nel traffico internazionale di esseri umani, e abile come nessuna altra istituzione della nostra società a produrre, con gli opportuni mezzi fisici e morali, ben incluse le condanne a morte, la virtù più preziosa per i mercati: la docilità della forza di lavoro. É questo il tipo di immigrazione cui anela il sistema delle imprese.

Lo ha riconosciuto senza troppi giri di parole uno dei massimi responsabili della applicazione delle politiche migratorie in Italia, con un’affermazione che, se ben intesa, ridicolizza tutta la grancassa dei media contro i clandestini:

          “il sistema produttivo nazionale preferisce spesso i clandestini: lavoratori meno costosi e più flessibili. Oggi cominciamo ad avere i primi immigrati regolari che divengono disoccupati, mentre i clandestini [nota bene] sono quasi tutti occupati. Anzi la clandestinità o il possesso di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro surrettizi sono requisiti preferenziali per accedere a un mondo del lavoro che assume preferibilmente senza contratto e senza garanzie” (PANSA, 2006, p. 101 – i corsivi sono miei).



Ringraziamenti

(*) Questo saggio riprende, aggiorna, integra lo scritto “Gli immigrati in Italia e in Europa” comparso nel volume Educare diversamente (a cura di D. Santarone), Armando, Roma 2006. Ringrazio il curatore del volume e l’editore per avermi autorizzato a ciò.

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Note:

6 Per alcuni effetti dell’azione del World Trade Organization sull’agricoltura dei paesi poveri, v. WALLACH-SFORZA (2001), ma sono da leggere anche i documenti di “Via Campesina”. su

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  1. Una trasformazione epocale
  2. Le cause permanenti delle migrazioni verso l’Europa (1a parte)
  3. Le cause permanenti delle migrazioni verso l’Europa (2a parte)
  4. Qualche numero
  5. Un’esistenza fatta di duro lavoro e di discriminazioni (1a parte)
  6. Un’esistenza fatta di duro lavoro e di discriminazioni (2a parte)
  7. Discriminati, ma non certo rassegnati
  8. Postilla: Un salto di qualità (in negativo) delle politiche migratorie (1a parte)
  9. Postilla: Un salto di qualità (in negativo) delle politiche migratorie (2a parte)
  10. Bibliografia

A cura di:
Pietro Basso

Documento soggetto a copyright.

Creation date : 2011-05-20 - Last updated : 2011-05-29

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