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L’immigrazione in Italia e in Europa:

Cause, caratteristiche, funzioni, prospettive (*)

Postilla – Un salto di qualità (in negativo) delle politiche migratorie

Gli ultimi anni sono stati anche gli anni della “guerra agli emigranti” africani, dei tragici fatti di Ceuta e Melilla30, dell’incremento degli immigrati morti per accedere a un’Europa che nega di voler diventare una fortress (il 2006 ha registrato ufficialmente 1.582 immigrate/i morti; nessuno conosce però il numero reale), degli accordi in sede europea ed italiana per costruire in Libia e in altri paesi del Nord Africa, fino addirittura all’isola francese di Mayotte nell’Oceano indiano, un cordone di centri di detenzione, e per rafforzarvi le strutture carcerarie e poliziesche, con ricadute drammatiche sugli emigranti, giusta l’efficace denuncia contenuta in “Come un uomo sulla terra”.

Sono stati gli anni in cui in uno dei due stati-perno dell’Unione Europea, la Francia, la “opinione pubblica” ha portato in carrozza all’Eliseo l’uomo politico che aveva sputato veleno e manganellate su un’intera generazione di figli di immigrati in rivolta, bollando i banlieusards come racaille, e giustificandone la repressione dietro la bandiera insultante della lotta alla “teppistocrazia”. Quella Francia che, col varo del contrat d’accueil et d’intégration prima e la sua obbligatorietà poi, sancita nel giugno 2006, ha recepito nel proprio ordinamento il principio-base del contratto di soggiorno italiano, rafforzandolo con elementi “identitari”, così da avere un’immigrazione il più possibile precaria e sottoposta alle oscillazioni del mercato, e insieme il più possibile in regola con i “valori”, e cioè gli interessi materiali, della Francia. Un’immigrazione, dunque, acefala e silenziosa sul piano culturale, sindacale e politico, per la quale nuove recenti norme hanno reso assai più complicato ottenere l’asilo politico e il ricongiungimento familiare.

Ma il poco invidiabile primato spetta, in questo caso, all’Italia dell’ultimo biennio percorsa da Nord a Sud, da destra a sinistra (con pochissime eccezioni), da una travolgente ondata di razzismo istituzionale che ha attivamente coinvolto non solo i governi, ma anche i comuni, le regioni, i corpi di polizia, compresi, per la prima volta, quelli municipali, gli organi di stampa. E si è tradotta in un pressante appello alla mobilitazione popolare contro le figure di volta in volta indicate come le vere cause dell’insicurezza sociale e personale, specie nelle grandi città: i rom, i venditori ambulanti, i lavavetri, le prostitute, i questuanti, e così via; figure quasi sempre riconducibili, in parte almeno, alle frange più emarginate e vessate dell’immigrazione. Una mobilitazione non di rado organizzata dai partiti istituzionali e di governo (la Lega Nord su tutti), che è andata in crescendo, e ha costituito il fertile retroterra di veri e propri pogrom, tra i quali spicca la bestiale strage compiuta in settembre dalla camorra a Castelvolturno. Sul piano propagandistico questo movimento dall’alto che punta a mobilitare “in basso” per farsi scudo delle pressanti richieste “popolari”, ha raggiunto il suo acme nell’autunno 2007 in occasione della uccisione a Roma di Giovanna Reggiani per mano di Nicolae Mailat. In quella circostanza, infatti, è scattato con una violenza estrema il dispositivo della colpa collettiva: non un delitto o un’aggressione individuale, bensì un delitto che chiama in causa l’intera gente, l’intera nazionalità, l’intera “razza” cui appartiene l’aggressore, la “brutta razza” delle genti immigrate31.

In questo clima è successo e sta succedendo di tutto. Si invocano espulsioni e deportazioni di massa, perfino di semplici manifestanti (di manifestazioni autorizzate) per la Palestina. Si moltiplicano i pestaggi e crescono i casi di violenza fisica e morale contro gli immigrati e le immigrate. Sono state istituite classi separate per i figli degli immigrati. É stato introdotto nell’ordinamento giuridico il reato di immigrazione clandestina (seppure sotto forma di ‘semplice’ aggravante). Si sono messi in più luoghi i bastoni tra le ruote ai ricongiungimenti familiari, alle iscrizioni dei bambini agli asili, al diritto all’istruzione dei giovani figli di immigrati (in Veneto sono state proposte le quote per le singole scuole e classi), alla celebrazione delle nozze tra immigrati e tra immigrati e italiani. Sono state fissate regole speciali per i call center frequentati dagli immigrati o per il loro accesso alle graduatorie dell’edilizia popolare e alle strutture sanitarie. Qualche regione ha escluso gli “extra-comunitari” dai sussidi di povertà. Sono state varate, o ventilate, nuove imposizioni fiscali sui permessi di soggiorno. Sono state impedite in più luoghi le più elementari manifestazioni di culto. Sono state istituzionalizzate le “ronde padane”. E l’elenco sarebbe davvero interminabile non solo perché si arricchisce ogni giorno di nuove imposizioni e di nuovi divieti, ma per il moltiplicarsi dei soggetti che si sentono legittimati, lo siano o no formalmente, a porre in essere norme e prassi che colpiscono gli immigrati32.

Come spiegarsi questo salto di qualità (in negativo) delle politiche migratorie? Mi limito qui ad un semplice schizzo di risposta, allineando quelli che mi sembrano i principali fattori da considerare.

Vi è anzitutto il crescente numero, il crescente radicamento, la crescente centralità degli immigrati nella produzione di beni e di servizi, la loro crescente forza oggettiva, con cui tutte le istituzioni, le imprese, le strutture statali, gli enti locali, etc. debbono fare i conti per contrastare le conseguenze non gradite di questi processi, prima tra tutte la crescita del valore (del costo) della forza-lavoro immigrata, che – stante la crisi – deve invece essere abbassato.

Strettamente legata a questo, vi è quella che l’ultimo rapporto Caritas ha ritratto come la “crescente simbiosi”, la crescente “connessione” tra gli italiani (gli autoctoni europei) e gli immigrati. La sempre più capillare compresenza sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nei quartieri, nei paesi, nei consultori, nei sindacati, nei circuiti dell’associazionismo; il moltiplicarsi dei rapporti affettivi e dei matrimoni tra italiane/i e immigrate/i (ormai uno su dieci, più del doppio di quelli con entrambi i coniugi immigrati); la crescente stanzialità degli immigrati, sempre più legati, non solo in Italia, alla prospettiva del non ritorno “a casa”; la crescita delle acquisizioni di cittadinanza, circa il doppio solo rispetto a tre anni fa (nel quadro di una legislazione che resta quanto mai restrittiva); la crescita ancor più accentuata dei figli di immigrati nati in territorio italiano ed europeo… tutto ciò, ad onta di un clima istituzionale avverso, sta facendo crescere una rete molecolare di contatti, di amicizie, di solidarietà, che stempera e fa passare in secondo piano le “diversità” culturali, religiose, di costume, ed esalta ciò che accomuna genti immigrate e genti autoctone, lavoratori immigrati e lavoratori autoctoni. Un avvicinamento pericoloso per quanti, invece, hanno la necessità di trovare un capro espiatorio per la esponenzialmente crescente insicurezza lavorativa, personale e sociale.

Tanto la globalizzazione neo-liberista, il turbo-capitalismo degli ultimi trent’anni, quanto a maggior ragione il suo repentino naufragio, infatti, hanno generato e stanno generando una polarizzazione della ricchezza sociale e del potere inaudita (che ricorda, appunto, la fine degli anni ’20), aprendo le porte ad un’era di insicurezza e di sacrifici, di lavoro vincolato e di disoccupazione di massa. Non posso qui argomentarlo, ma il superamento della profonda crisi in cui siamo appena entrati esige una più intensa torchiatura del lavoro e un suo forte deprezzamento; ciò che, a sua volta, è possibile solo sulla base di un’intensificata concorrenza tra lavoratori. Ogni intoppo, specie se organizzato, al dispiegamento della competizione a coltello tra lavoratori allontana l’uscita (del mercato) dalla crisi.

Ma l’uscita dalla crisi sulla base della riaffermazione delle leggi dell’economia capitalistica esige anche una nuova subordinazione del Sud al Nord del mondo, e non sfugge ai poteri forti dell’intero Occidente che gli immigrati sono qui come una delegazione di massa dei continenti di colore. Non sarà facile far accettare loro (gli Stati Uniti insegnano) una ulteriore spoliazione dei propri paesi di origine. La presenza scomoda di questo “cavallo di Troia” va tenuta a bada ed esorcizzata. Come? Certo, con accorte politiche di stratificazione e di divisione (l’ideale, si è detto da qualche parte, è il “modello Marsiglia”, dove gli immigrati di terza generazione si incaricano, e sono incaricati, di tenere a cuccia i nuovi immigrati); ma anche con un inasprimento dei controlli e delle limitazioni, e se questi non bastano, con il rilancio e la semina della xenofobia e del razzismo a livello popolare ad opera degli “imprenditori della paura”33

Insomma, questa acutizzazione delle politiche anti-immigrati (non anti-immigrazione!) nasce anche da debolezze e timori degli attori istituzionali che la stanno alimentando. Non è affatto detto che passerà di successo in successo. Potrebbe anche, contraddittoriamente e senza volerlo, risvegliare il “gigante addormentato”…



Ringraziamenti

(*) Questo saggio riprende, aggiorna, integra lo scritto “Gli immigrati in Italia e in Europa” comparso nel volume Educare diversamente (a cura di D. Santarone), Armando, Roma 2006. Ringrazio il curatore del volume e l’editore per avermi autorizzato a ciò.

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Note:

30 MIGREUROP (2007). su
31 A nulla valse la dichiarazione del marito della donna uccisa, che affermò: “potrebbe averlo fatto anche un italiano”. Queste parole di verità furono sommerse dalle grida belluine invocanti giustizia sommaria ed espulsioni di massa. su
32 Il clima istituzionale è diventato talmente favorevole al “dagli addosso all’immigrato” che uno degli antesignani della “tolleranza zero” contro gli immigrati, Gentilini, si è sentito in dovere di invocare ora la “tolleranza doppio zero”. In Germania, invece, il governatore democristiano dell’Assia, Roland Koch, propose nel dicembre 2007 la apertura (la riapertura…) dei “campi di rieducazione” di infausta memoria per i giovani delinquenti stranieri. su
33 SIREN (2003). su

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  5. Un’esistenza fatta di duro lavoro e di discriminazioni (1a parte)
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  10. Bibliografia

A cura di:
Pietro Basso

Documento soggetto a copyright.

Creation date : 2011-05-20 - Last updated : 2011-05-29

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