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Lo spazio dell’abitare

Nel tempo della crescita riuscire ad essere riconosciuti nella propria differenza e autonomia e, al contempo, sentirsi a casa, riconoscersi in un luogo, sentire di appartenervi sono esigenze solo all’apparenza divergenti. In questa direzione, l’abitare si configura come un’unica esperienza esistenziale, che trascende e completa l’esperienza della casa, che ha a che fare con la natura dello spazio aperto e pubblico e con la natura delle relazioni che in quello spazio hanno luogo. Una città che aiuta a crescere è una città che valorizza le differenze, che aiuta a ritrovare se stessi e insieme favorisce le comunanze, aiuta a ritrovarsi al di là delle differenze.

"Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c’è bisogno di riconoscere perché nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo. Abitare è sapere dove porre l’abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l’altro, dove dire è u-dire, rispondere è cor-rispondere. Abitare è trasfigurare le cose, è caricarle di sensi che trascendono la loro pura oggettività, è sottrarle all’anonimia che le trattiene nella loro ‘inseità’, per restituirle ai nostri gesti ‘abituali’ che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le ‘sue cose’, presso di sé"(Galimberti U., 2003, p. 223).

Luogo di mescolanza, mobilità, trasformazione. L’esperienza dello spazio, del proprio ambiente di vita non ha naturalmente solo a che fare con la conoscenza del mondo ma è parte integrante del nostro abitare.

Lo spazio dell’abitare è da sempre chiamato ad assolvere almeno ad una duplicità di esigenze: il rifugio e la relazione, la casa, spazio privato e lo spazio pubblico. E le due dimensioni sono in qualche modo inscindibili: "i luoghi abitabili sono punti di incontro di privato e pubblico, di quiete e di moto. In questo senso presentano una profonda somiglianza con gli esseri umani che, come sostiene Valery sono ‘fatti di casa e ape’: una similitudine che proietta sul mondo, si lancia attraverso lo spazio e il tempo, desidera, aspira, lavora, bottina, esiste, si disperde; la casa è ciò che rimane, ciò che viene lentamente edificato per resistere al tempo, ciò che riposa in sé e offre riposo, ciò che raccoglie e raduna, ciò che resta immobile e come morto finché l’ape è assente. All’ape corrisponde l’istinto o lo slancio lirico, la sua aspirazione, il suo entusiasmo e il suo vigore conquistatore" (Consonni G., 2000, p. 51).

Abitare nel suo significato più ampio non si esaurisce nell’oggetto della casa, non si esaurisce neppure nella "vita" che attraversa la casa, nella relazione mutevole tra questo interno e i suoi abitanti, ma è una esperienza, un processo che ha a che fare con l’esperienza quotidiana delle persone, con quel varcare soglie, attraversare confini (Lanzani A., Granata E., 2006). E questo, nel caso di persone di giovane età, appare ancora più vero. Come abbiamo già osservato i ragazzi si apprestano fin da molto giovani ad abitare un vario insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione (il cortile, il giardino, la piazza, la strada) e così anche una pluralità di "spazi di vita" variamente ubicati e diffusi (il supermercato, il tram, il grande parco metropolitano, la rete discontinua di luoghi condivisa da una comunità di pratiche sportive, culturali). Nell’esperienza dell’abitare si incontra così non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture.

Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza che le città non sono semplici "contenitori" capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana, ma sono anche il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide (Sandercock L., 2004, p. 200). La mescolanza, anzi, è il tratto costitutivo che rende le città luoghi civilizzati in cui vivere, per tale motivo, lo straniero, il rifugiato, lo schiavo, persino l’invasore hanno sempre svolto un ruolo cruciale nelle città. Lo straniero introduce cibi, idiomi, lingue, porta suoni, colori, significati.

Se pensiamo alle città italiane, Torino, come Milano, Genova come Roma o Napoli, notiamo come la pluralità di provenienze etnico-nazionali, l’assenza di ghetti monoetnici e, al contrario, la creazione di quartieri misti dai tratti multietnici, sono caratteristiche certamente problematiche ma anche promettenti. Questa natura plurale di molti contesti urbani è una sfida interessante e stimolante anche per i loro coetanei italiani.



A cura di:
Anna Granata
Elena Granata

Articolo già pubblicato su Animazione Sociale n.11, Novembre 2007

Creation date : 2008-03-15 - Last updated : 2010-01-31

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