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Per un servizio sociale trasformativo: approccio dell’agency e narrazione

Consapevolezza e «modernità liquida»: la forma dell’acqua

Quanto scritto sopra significa che, nei fatti, l’agire sia sempre accoppiato alla consapevolezza circa ciò che facciamo? L’essere attori intelligenti (knowledgeable) non comporta che noi siamo sempre consapevoli di ciò che stiamo facendo e del perché; spesso tale consapevolezza è costruita ex post. Quali sono allora i limiti della riflessività, ovvero della razionalità che riflette su se stessa?
Secondo Bauman la visione critica dell’azione tenta di restituire
legittimità "all’inesplicabile", o meglio all’irrazionale, a simpatie e fedeltà che non possono "spiegare se stesse" in termini di utilità e fine... possono avvenire cose che non hanno cause che le fanno necessarie; e la gente fa cose che difficilmente passerebbero il vaglio di una responsabile - lasciando in pace "ragionevole" - finalità (Bauman 1993, 33).

La scelta della persona si colloca, così, nella relazione tra un soggetto
impulsivo e passionale e un mondo caratterizzato da ambivalenza, disordine, ambiguità e tragedia... per molta parte del tempo noi non siamo consapevoli perfino di aver fatto una scelta, è come se questa riguadagnasse con noi il tempo perduto più tardi, spesso molto più tardi, quando le ragioni delle scelte-chiave nelle nostre vite - del partner, del lavoro, dell’amante, etc. - ci diventano chiare. O potrei dire, "alcune delle ragioni", in quanto sembra che noi non possiamo mai completamente giungere al fondo della natura multideterminata delle nostre storie di vita (Hoggett 2001, 40).

Da dove deriva questa percezione della rilevanza dell’esposizione all’incertezza, e quindi all’indeterminatezza, del soggetto considerato come «impulsivo e passionale» nel rapporto con un mondo visto come «caratterizzato da ambivalenza, disordine, ambiguità e tragedia...»? La grande trasformazione della modernità verso una dimensione globalizzata - «liquida», scrive Bauman (2002) - delle relazioni produce un nuovo scenario post-tradizionale del welfare e del lavoro sociale professionale che Ferguson, citando Bauman (2002, XIII), chiama «politica della vita»11 (Ferguson 2001, 41), in cui gli elementi nuovi appaiono essere i processi di individualizzazione (Beck 2000b), la trasformazione dell’intimità (Giddens 1995), la riflessività crescente e l’esposizione al rischio (Ferguson 1997). Al pari dei modelli «di dipendenza e interazione, per i quali oggi è scoccata l’ora di essere liquefatti» - oggi tali modelli sono «malleabili in una misura mai sperimentata o finanche immaginata dalle generazioni passate, ma al pari di tutti i fluidi non conservano mai a lungo la propria forma» (Bauman 2002, XIII) - anche la propria identità (o sarebbe meglio scrivere, le proprie identità) oggi non viene "ereditata" dalla propria appartenenza, dal proprio ruolo sociale dato e in cui ciascuno, nel bene e nel male, si colloca. «I ruoli e i percorsi biografici degli uomini e delle donne non sono più "dati a priori", quasi fossero un dato strutturale, come avveniva in precedenza» (Ferguson 2001, 44), ma vengono continuamente rimodulati e in definitiva avere più possibilità significa poter accedere a identità diverse e spesso simultanee. Il tradizionale confine tra mondo femminile e mondo maschile, per esempio, caratterizzati il primo dall’esclusiva competenza per le relazioni di intimità, e il secondo per un orientamento all’attività e alla realizzazione della propria carriera lavorativa, diventa sempre più intermittente e segue un andamento che include sempre più spesso reciprocità un tempo impensabili e francamente mixed:
Ciò che ciascuno di noi è deve essere continuamente giustificato nel confronto con gli altri. Come osservava Giddens (1999a, 106), «È passata l’epoca in cui bastava dire "Io sono un uomo e gli uomini sono fatti così... non c’è motivo di discuterne oltre». Oggi ciascuno di noi è chiamato a rendere conto, in qualche modo, dei propri atteggiamenti e comportamenti: deve trovare una ragione, in altri termini, per quello che è e per quello che fa (Ferguson 2001, 45).

In questo processo di individualizzazione delle biografie personali e di costruzione attiva della propria vita il sé diventa un «progetto riflessivo» (Giddens, 1991), in cui le persone sono chiamate a modellarsi una propria identità, un proprio «progetto di vita», senza altri riscontri se non quelli legati alla speranza/fiducia che le cose vadano bene ed «è innanzitutto dagli esperti, dai media di massa, dai libri e così via, che ciascuno di noi trae le informazioni che poi utilizza nella costruzione riflessiva del proprio corso di vita» (Ferguson 2001, 46).
Beck definisce il processo di individualizzazione come
la tendenza alla generale affermazione di forme e di condizioni di vita individualizzate, che costringono le persone, pur di sopravvivere, a fare di se stesse l’elemento portante della progettazione e della conduzione della loro vita (Beck 2000b, 38).

L’aspetto nuovo della società post-tradizionale non consiste, quindi, solo nel fatto che dobbiamo prendere più decisioni rispetto alla nostra vita, ma che siamo di fronte alla condizione di dovere costruire attivamente tutto il corso di vita. Da una parte il contesto ci impone di prendere sempre più decisioni, aprendoci a una possibilità sempre più ampia di opzioni; dall’altra aumenta il rischio di fallire e questa maggior esposizione al rischio appare come conseguenza, più che della proliferazione di nuove fonti di pericolo, della "emancipazione" degli individui dai tradizionali vincoli normativi e istituzionali del passato; una libertà che comporta il prezzo dell’esposizione alla percezione maggiore dell’insicurezza e del rischio:
Che una situazione sociale sia definita come "esposta al rischio" oppure no, in altri termini, dipende essenzialmente dall’approccio meta-teorico con il quale la si guarda: quello di una realtà fissa e inevitabile, o quello di un mondo che è sottoposto all’azione degli uomini. In quest’ottica, sono sempre più numerosi gli ambiti della vita sociale che si spostano dalla sfera del "naturale" e "dell’inevitabile" a quella dell’oggetto della scelta e della responsabilità umana (Ferguson 2001, 46).

La persona vive un senso di isolamento, di responsabilità soverchiante e di minaccia incombente: a tale proposito, per esempio, sembra che, nella percezione dell’insicurezza urbana, tale vissuto sia determinante piuttosto che l’incidenza e la prevalenza oggettiva degli episodi criminosi (Mosconi e Toller 1998). Quindi ciò che rafforza il sentimento di insicurezza e di assedio sembra essere l’esposizione maggiore non tanto a comportamenti criminosi, ma al senso di incertezza che deriva dall’essere al comando di una nave le cui carte per la navigazione sono andate perse:
L’aspetto più importante delle regole di oggi è che, assai più di quanto mai avvenuto prima, gli individui devono - in un certo senso - darsele da soli, tradurle nel proprio vissuto attraverso le proprie azioni concrete... Tanto per capirci: nelle società tradizionali, ognuno nasceva con una serie di regole e condizioni predeterminate (dal ceto sociale alla religione) già ben presenti davanti a sé. Per accedere alle risorse della società di oggi, invece, è necessario attivarsi, prendere l’iniziativa, fare determinati sforzi. Occorre vincere, imparare ad affermarsi nella competizione per accedere alle risorse scarse a disposizione... e non una volta soltanto, ma quotidianamente, giorno dopo giorno (Beck e Beck Gernsheim 1996a, 25).

Nel contesto sociale così fortemente caratterizzato da richieste di sempre maggiore riflessività, la propria biografia si riassume sempre più, nel paradosso di Morin, nel «100% cultura», e da "storia naturale" diventa «biografia elettiva»:
La biografia fai-da-te è sempre una biografia esposta al rischio, "sul filo del rasoio", nella permanente esposizione (ormai in parte esplicitamente riconosciuta, in parte ancora misconosciuta) al pericolo. La facciata luccicante della prosperità e del consumismo può nascondere, non di rado, un vero e proprio precipizio. Un errore sul lavoro, un evento sfortunato, una malattia, una "rottura" in famiglia... tutti questi eventi sono trattati dai più alla stregua di una semplice "cattiva sorte". Simili circostanze, in realtà, non fanno che portare allo scoperto ciò che in fondo si è sempre saputo: una vita fai-da-te può diventare, in un batter d’occhio, una vita fallimentare. I legami sociali predefiniti, non discutibili, sovente coercitivi delle epoche passate, hanno lasciato il loro posto a un unico principio: «Tutto va bene fino a nuovo avviso» (Beck e Beck Gernsheim 1996b, 25-26).

La società della «sicurezza sociale», della sconfitta delle malattie epidemiche e della povertà, produce, attraverso i suoi stessi meccanismi, nuove povertà, nuova esposizione al rischio, nuovi motivi di insicurezza, in se stessa e a livello planetario; sembra che quanto scritto dalla probabile autrice, nel Libro di Kohélet, accompagni il destino umano sotto spoglie rinnovate:
Io vedo sotto il sole che non é degli agili la corsa, né dei forti la vittoria, e neppure dei sapienti il pane e dei calcolatori la ricchezza, e nemmeno degli accorti il favore, perché a tutto si frappongono il tempo e il caso (Kohélet, 9,11).

Le politiche della vita sono la dimensione consona a tale grande cambiamento e si affiancano alle politiche dell’emancipazione: queste «sono finalizzate a perseguire il controllo del potere di distribuzione delle risorse, o delle opportunità di vita... Scopo di fondo è la creazione di condizioni strutturali che facilitino l’autonomia di ciascun individuo (Giddens 1997)»; a esse si affianca una nuova dimensione: quella delle politiche della vita, o di «come si debba vivere in un mondo nel quale tutto ciò che era naturale, o tradizionale, diventa l’oggetto di una scelta o di una decisione attiva da parte di ciascuno di noi» (Ferguson 2001, 48). Se l’esposizione al rischio è certamente fonte di incertezza e di stress, il caso, di cui il rischio è anche figlio, propone piuttosto un’apertura a esiti imprevedibili, nel bene e nel male. Tale apertura appare necessaria perché possa esservi cambiamento. Anzi, sembra un ingrediente ineliminabile e al contempo prezioso; spesso, invece, così come avviene per il tempo12.
Il «rischio» che è tipico delle società tardo moderne, è visto come un elemento esclusivamente negativo: ad esempio, come alibi di cui si servono gli enti pubblici per scaricare la responsabilità sugli operatori, e magari cercare di sorvegliarli con procedure di certificazione sempre più vincolanti (Parton 1996)13.
Si trascura del tutto invece il fatto che una maggiore esposizione al rischio significa anche, nell’ottica della riflessività, una maggiore gamma di opportunità, per costruire identità personali più tutelate, in virtù del fatto che problemi sociali tradizionalmente trascurati o repressi - come gli abusi sessuali e le violenze nella sfera domestica - sono diventati, se così si può dire, di dominio pubblico. Le sfide che gli operatori devono affrontare (e, con loro, tutti noi) per comprendere il significato e le implicazioni delle relazioni di intimità, sono ridotte arbitrariamente a problemi di ordine strutturale, relativi alla "governabilità" della popolazione. Dal punto di vista delle politiche della vita, tutto ciò significa che si trascura completamente lo sviluppo di strategie operative che permettano di aiutare gli utenti più vulnerabili nella realizzazione del proprio sé e nel perseguimento del controllo sul proprio corso di vita
(ibidem, 52).



A cura di:
Luigi Colaianni
Creation date : 2007-11-13 - Last updated : 2009-12-18

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